L’educazione è una forma d’amore. E dura per sempre… terzo episodio

L’educazione è un fantastico viaggio nelle emozioni.

Siamo giunti al terzo e ultimo episodio della miniserie blog che nelle scorse settimane ha tenuto noi di Occhicielo a riflettere sul ruolo dell’esempio nell’educazione. Come ho già fatto la settimana scorsa, prima di affrontare con Elisabetta Rossini ed Elena Urso il delicato tema delle emozioni negative, vorrei fare un breve riepilogo di quanto accaduto negli episodi precedenti.

 

Educare con l’esempio e con il dialogo

“Naturale” o “strutturato”, l’esempio che offriamo noi genitori è sempre fondamentale nella formazione dei piccoli, che assorbono come spugne e sono bravissimi a “smascherarci” non appena i loro sensori della verità percepiscono anche le più lievi discordanze tra lo stato d’animo che abbiamo dentro e le azioni o le parole che esterniamo.

I bambini “sentono quello che sentiamo noi”, sono delle creature naturalmente empatiche. Non hanno però ancora acquisito la capacità di decodifica dei comportamenti, quindi, per comprendere correttamente quanto avviene intorno a loro, hanno bisogno di captare la coerenza tra le emozioni che proviamo e i nostri modi di agire.

Ma offrire coerenza ai nostri bambini non significa mostrare solo il bello, il positivo e il perfetto di noi. Significa invece porgere loro una “chiave di lettura” delle numerose sfumature con cui si esprime la nostra identità, affinché, proprio attraverso la lettura del nostro Sé, i piccoli possano gradualmente costruire il loro, imparando a dare un nome a quello che provano, per conoscerlo e armonizzarlo in una forma nuova e originale.

E la lettura, lo sappiamo bene, che sia di un testo o della nostra anima, ha bisogno di parole. È per questo che, dovendo sintetizzare in poche righe l’essenza di quanto Elisabetta ed Elena ci hanno detto finora, mi sento di ricondurre tutto all’esempio e al dialogo. Due elementi che camminano a braccetto e hanno bisogno l’uno dell’altro per completarsi e per diventare davvero efficaci.

 

“Emozioni negative”: come educare a gestirle con l’esempio

Francesca Ancora una volta vorrei partire da una citazione del vostro libro, L’educazione è una forma d’amore. E dura per sempre…

“Appena nati, non esistono le emozioni positive o negative, esistono solo le emozioni. Giuste, adeguate, naturali, perché un’emozione non può essere sbagliata. Crescendo, dovremmo imparare a vivere ogni emozione e a manifestarla in modo adeguato, senza trattenere o vergognarci di quelle negative.”

È questo il bel modo in cui parlate di emozioni!

Quanto è importante che innanzitutto noi adulti ci convinciamo del fatto che le emozioni sono “emozioni e basta”, che ciascuno di noi ha un proprio, personalissimo, modo di viverle, che possiamo provarle tutte?

E, quando dico “tutte”, intendo anche quelle “brutte”, come la sofferenza per la perdita di una persona amata o la paura per una malattia che colpisce noi o qualcuno dei nostri cari. Emozioni negative, anzi, direi “dolorose”, che provocano una sofferenza evidente, della quale nessuno può non accorgersi, men che mai i nostri figli. Voi lavorate con le famiglie, come possiamo fare noi genitori a far pace con le emozioni, anche quelle brutte, a convincerci che sono emozioni e basta e che ne possiamo parlare con i nostri figli?

Elena Se vogliamo soffermaci sulla sfera delle emozioni negative, qui sì, davvero, dipende tantissimo dalla nostra educazione, dalla nostra formazione, e poi dal percorso che abbiamo fatto una volta adulti al di fuori delle famiglie.

Così, se siamo abituati a parlare delle emozioni che ci fanno soffrire, ad analizzare il modo in cui le affrontiamo, perché così ci hanno insegnato a fare in famiglia o perché abbiamo fatto un percorso di riflessione personale autonomo con l’aiuto di uno specialista, oppure per entrambe le ragioni, allora è più facile che riusciremo a parlarne con i nostri figli e trasmettere anche a loro dei modi per affrontare delle emozioni che possono essere anche tanto dolorose e travolgenti.

Ma se l’educazione che abbiamo ricevuto in famiglia in questo ambito è stata carente, nel senso che siamo stati abituati a censurare, a sminuire, le emozioni negative, e se non abbiamo nemmeno avuto modo di compensare questa carenza attraverso un percorso personale di riflessione su di noi, allora in maniera abbastanza automatica tenderemo a reiterare l’esempio familiare, che diventa, in questo caso, un vero e proprio modello.

E quando parlo di “percorso personale” non mi riferisco a una questione legata al grado di istruzione. Per esempio, nel nostro studio di consulenza familiare, ci capita spesso di interagire con tanti professionisti, persone che hanno studiato, e tanto, le quali, rispetto al lutto, alla tristezza, alla paura, fanno grande fatica a esprimere e a gestire ciò che provano, perché non sono abituate a farlo, innanzitutto con se stesse. Per cui, quando queste emozioni si manifestano nei loro bambini, e accade sempre in maniera abbastanza potente, perché i bambini non hanno ancora un contenimento, si trovano subito in grande difficoltà.

Così, in genere, quando abbiamo questo tipo di problematicità personale, è facile che i nostri figli diventino una sorta di specchio che amplifica, davanti al quale tendiamo a riprodurre gli atteggiamenti visti in famiglia. Per esempio, se nostro padre di certe cose non parlava e zittiva noi e gli altri con frasi tipo “non se ne parla”, “non ora”, “ci sono cose più importanti”, “figurati se puoi aver paura di questo e di quello”, è molto probabile che le ripeteremo ai nostri bambini.

Spesso di fronte a un piccolo in preda a un’emozione negativa, come la paura, si usa l’ironia, nel tentativo di sdrammatizzare, come se si volesse comunicare che essendo quella una emozione di poca importanza il piccolo la deve vivere con leggerezza. Ma i bambini non hanno il senso dell’umorismo come ce l’abbiamo noi, non conoscono l’ironia per molto tempo, e così si crea in loro un grosso conflitto interiore, perché ogni emozione ha una portata rilevante nel loro animo e, se dall’altra parte il genitore dice “ma no, dai, che cosa ridicola che la vivi in questo modo”, il bambino vive un forte contrasto tra l’intensità di quello che prova e il distacco che gli comunica invece l’atteggiamento del genitore.

Questo è davvero un tema molto caldo, nel senso che è una delle problematiche su cui lavoriamo di più, perché comunque obbliga a fare uno scarto tra quello che siamo stati fino a un certo punto e quello che dovremmo essere da quel punto in avanti. E il momento in cui siamo messi di fronte a questa esigenza non è tanto quello in cui diventiamo genitori, perché fin quando il bambino non parla, allora in qualche modo gestire la nostra difficoltà rispetto alle emozioni è più facile. Il problema sorge invece quando il bambino verbalizza e interroga in maniera esplicita. È allora che tutto diventa più difficile.

Di fronte a questa difficoltà, alcuni si rivolgono a dei consulenti esperti, altri la gestiscono come sono abituati a fare. E qui, davvero, o è successo qualcosa nel nostro percorso di formazione, che ci ha predisposto, anche se non eravamo abituati a farlo in famiglia, a vedere, a sentire, a parlare delle emozioni in maniera diversa, o se no tenderemo a riprodurre il nostro modello familiare. In maniera mimetica o a contrasto, ma sempre in una forma di dipendenza, perché, una delle cose che sembra più semplice, invece è la più difficile, è fare davvero un bilancio e dire “queste cose sono state buone della mia educazione e penso che valga la pena riproporle, altre no e allora faccio una riflessione personale e vediamo come posso comportarmi con i miei figli”.

 

E se le emozioni negative “esplodono”… chiedere aiuto con fiducia e speranza

Francesca E allora vi chiedo: voi che tutti i giorni accogliete in questa bella stanza delle famiglie in difficoltà, vi sentite di rasserenare tutte le famiglie rispetto all’ipotesi di chiedere aiuto quando non ce la fanno da sole? Mi sembra che, spesso, il momento in cui si consulta lo specialista – pedagogista, psicologo, psichiatra, non fa differenza – viene visto come quello che segna il fallimento. Io invece lo vedo come l’inizio di una possibilità di successo. Voi siete d’accordo? Si possono “aggiustare” le cose?

Elisabetta Sì, certamente! Altrimenti non faremmo questo lavoro. Però, come dici tu, per alcuni è il fallimento, per altri invece è, a volte, anche la stanchezza per una quotidianità rovinata da tante piccole cose, non è necessario che succeda qualcosa di clamoroso. Oppure perché davvero si cominciano a creare tensioni all’interno della coppia.

I motivi che portano le persone a rivolgersi a noi sono tanti, non tutti nascono dall’idea del fallimento. Un po’ sì, ma non è l’unico motore. Però la speranza concreta c’è. Già raccontare determinate situazioni aiuta a dare un ordine a quello che prima è molto confuso e prorompente, perché il racconto avvia una rielaborazione. E poi c’è il confronto che, ovviamente, è produttivo.

Elena C’è anche un’altra categoria di persone che si rivolge a noi, e cioè tutte quelle famiglie che ci chiamano già quando i bambini sono molto piccoli, per riflettere prima, perché vogliono dare una impostazione e vogliono capire meglio come e cosa fare. Oppure vengono quando sta per nascere un fratello. Sono persone che mostrano una certa sensibilità verso gli aspetti emotivi legati ad alcune esperienze importanti, rispetto ai quali capiscono di non avere delle competenze specifiche, proprio perché magari non hanno compiuto un percorso personale. In questi casi, la consulenza dello specialista viene vissuta con maggiore serenità e viene più vista come una opportunità: “sta per nascere il mio secondogenito, non lo so come si gestisce, mi rivolgo a chi lo sa…”

Elisabetta “… o dovrebbe saperlo!” Qui, poi interviene la fiducia, e noi dobbiamo meritarcela ogni volta. Però, diciamo che tutto si basa sulla fiducia e sulla speranza, almeno inizialmente.

 

Educare con le fiabe… anche quelle classiche

Francesca Eh sì, parlando di sentimenti, si parte da qui! Io ne sono convinta, forse è per questo che la mia Verdolina è così piena di fiducia e di speranza, perché, in fondo, questa tovaglia verde parlante ha molto di me, e io sono certa che proprio sentimenti come questi alimentano la curiosità e l’apertura verso il mondo necessarie per qualsiasi scoperta.

Vorrei allora approfittare di questa riflessione sulla verde protagonista del mio primo racconto per ragazzi, come spunto per porvi un’ultima domanda.

Come sapete, il blog Occhicielo è solo una parte di un progetto editoriale più ampio, fortemente voluto dalla mia editrice Valeria Crisafulli, con la quale condivido la passione per i temi pedagogici e, in particolare, per gli aspetti legati alla sfera delle emozioni. Accanto al blog, infatti, a gennaio di quest’anno ha preso l’avvio anche la collana Occhicielo educare con le fiabe di Edises editore, inaugurata dal racconto Verdolina scopre il mondo. Un fantastico viaggio nelle emozioniche avevo scritto qualche anno fa e del quale Valeria ha, con molta sensibilità, trovato la vocazione: raccontare di emozioni.

Secondo voi, l’idea su cui si fonda il nostro progetto, e cioè usare i libri, con le loro storie, per dialogare con i più piccoli intorno alla sfera emotiva, per educare alle emozioni, è buona? E con “buona” intendo: può aiutare nel concreto noi adulti a guidare i nostri piccoli – figli o alunni – alla scoperta delle loro emozioni e verso una migliore conoscenza di se stessi? Voi che avete letto Verdolina scopre il mondo, pensate che la mia storia riesca in questo obiettivo, sebbene io non l’abbia scritta con questa finalità, ma solo con il desiderio di raccontare qualcosa che mi appartiene?

Elena Intanto, complimenti per il libro!

La domanda che ci poni però è piuttosto articolata e quindi vorrei cominciare col risponderti in merito a Verdolina e poi affronterei il discorso sul libro in generale, che è un po’ più delicato e che di sicuro potrà essere un tema da approfondire in uno degli articoli che scriveremo per Occhicielo nei prossimi mesi.

Una volta Verdolina, se fosse stato un romanzo, sarebbe stato un romanzo di formazione: la tovaglia che va a esplorare il mondo e poi torna. Il tuo racconto è carico di tutte le emozioni – paura, stupore, rabbia – che può provare un bambino quando si affaccia al mondo, e con “mondo” intendo anche quello di casa: ci sono tante cose che i bambini non conoscono e che scoprono, anche solo passando dalla posizione distesa a quella seduta, poi eretta e, infine, quando cominciano a muoversi in casa da soli. È per questo che noi ripetiamo spesso di mettere “la casa a misura di bambino”, perché è qui che avviene la sua prima esplorazione del mondo, del suo mondo. E il tuo racconto è ricco di spunti per riflettere proprio sulle emozioni legate alla scoperta.

In merito all’utilizzo dello strumento libro, poi, per noi è fondamentale, altrimenti non faremmo anche questa parte di professione che ci impegna nella scrittura, però, secondo me, bisogna essere un po’ attrezzati. Nel senso che, senza pensare a storie pensate apposta, quello che è molto importante è l’adulto che fa da veicolo.

Per esempio, ti sembrerà strano, ma noi abbiamo tantissime persone in consulenza che non riescono a leggere le fiabe classiche, perché sono costellate da molta violenza, molto lutto. Per cui, o non le leggono proprio ai loro bambini o vanno a edulcorare tutte quelle parti che dal loro punto di vista sono le più violente, le più inquietanti, e che invece in realtà sono le più formative.

Oggi, siamo arrivati a un punto in cui si è persa un po’ di naturalezza nel fare delle cose belle come leggere insieme un libro. Per esempio, i nostri nonni ci raccontavano Cappuccetto rosso con grande tranquillità. Ora invece molti pensano, e con convinzione, che certe cose siano “troppo” per i bambini. In realtà sono troppo per noi, e probabilmente proprio perché noi adulti dobbiamo fare da ponte, da tramite e, quindi, quando il libro ci mette davanti a determinate emozioni, dovendo gestire l’effetto che hanno in noi e anche nei nostri figli, se non le abbiamo mai guardate bene, o analizzate, è facile che possano crearci una difficoltà.

Quindi la domanda che ci fai non ha una risposta semplice, nel senso che il libro è sicuramente uno strumento utilissimo, ma affiancato da un adulto dotato della capacità di rispondere con tranquillità a domande che quasi mai sono pregne di ansia o di chissà quale significato recondito e che, invece, sono proprio dettate dalla curiosità, dalla voglia di sapere. I bambini attraverso i libri scoprono cose che non conoscevano e ne sono incuriositi, quindi chiedono per imparare, ma se l’adulto ha un carico personale particolare, in quelle domande, in quelle esperienze raccontate può leggere un proprio significato, una propria paura o ansia e, in quel caso, è facile che si trovi in difficoltà nel dare una risposta serena.

Elisabetta E il rischio è che, nel tentativo di fronteggiare le proprie ansie e paure, tenda a censurare il libro e a non volerlo rileggere, proprio quando magari il bambino ha bisogno di risentirlo più volte, perché vi trova degli spunti che lo stanno aiutando a sistemare qualcosa che ha dentro e che però necessità di più letture, di più tempo.

Francesca Mi fa molto piacere sentire queste cose. Personalmente sono contraria alla censura e a favore di tutte le fiabe classiche, perché molto spesso trattano temi dolorosi di cui si tende a parlare poco, dei quali i bambini invece vogliono sentire. Quindi voi mi confermate che fanno bene e che anzi vanno lette, ovviamente affiancando i piccoli, ma lette?

Elisabetta Vanno proprio lette, e manco lo avessimo detto noi! Però davvero in questo Bettelheim (Il mondo incantato, 1975) è insuperato.

Spieghiamo poco, leggiamo, se non siamo pronti, aspettiamo piuttosto! Perché razionalizzare una fiaba classica è pressoché impossibile, quando non dannoso. Ci dobbiamo proprio affidare al linguaggio metaforico, simbolico emotivo, che noi adulti a volte abbiamo dimenticato.

E se i bambini, non vogliono sentire tutta una fiaba, non vuol dire che allora era troppo paurosa, troppo piena di particolari cruenti, vuol dire solo che hanno bisogno del loro tempo. La difficoltà sta proprio in quello, nel lasciare i libri a disposizione dei bambini in modo che siano loro a riprendere quello che vogliono per sentirlo fino alla fine, o fermarsi allo stesso punto per altre dieci volte. Non selezioniamo noi! A volte loro vogliono risentire solo una parte, magari proprio quella che noi salteremmo.

 

Emozioni e basta

Mi sembra chiaro il messaggio che Elisabetta ed Elena ci hanno lasciato in questo bel ciclo di interviste che oggi chiudiamo. Non dobbiamo pensare alle emozioni come positive o negative, belle o brutte, perché le emozioni sono “emozioni e basta”, hanno tutte uguale intensità e dignità e tutti gli sforzi che facciamo in direzione di una loro maggiore comprensione sono destinati a produrre effetti benefici nell’armonia con noi stessi, nella relazione con i nostri figli e nelle esperienze che condividiamo con loro, anche, per esempio, la lettura di un bel libro.

Che parliamo della nostra vita o delle avventure di una curiosa tovaglia verde, il consiglio che ci danno Elisabetta ed Elena è di vivere tutte le emozioni, partendo dalle nostre, per aiutare anche i piccoli a riconoscere le proprie e imparare a gestirle.

E voi… siete pronti per “Un fantastico viaggio nelle emozioni?”

 

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About the author

“Perché sono nato?” È questa La grande domanda che si pone Wolf Erlbruch. La risposta che ho trovato per me è: per vivere e condividere emozioni. Ho scoperto che non c’è strumento migliore delle parole per raggiungere un obiettivo tanto ambizioso. Forse è per questo che le ho scelte per la mia professione. Tra le parole vivo, tra le parole lavoro, tra le parole navigo. Per scoprire, per trasmettere, per raccontare e aiutare a raccontare, esperienze, saperi e storie.